Propongo qui un testo, da tempo in attesa di ulteriori aggiornamenti ed elaborazioni, relativo al Carme LXIII di Catullo. Questo epillio, parte dei cosiddetti Carmina Docta di Catullo, rappresenta, a detta di molti esperti, uno dei momenti poetici della letteratura latina più significativi in riferimento alla musica. Inutile dire che sull’argomento esiste una bibliografia pressoché sterminata e autorevolissima a cui questo appunto non pretende nemmeno di avvicinarsi. Per un più valido orientamento il minimo che possa fare è rimandare il lettore per lo meno a due pubblicazioni, entrambe dell’edizioni Einaudi, la prima del 1997, la seconda 2018, con la traduzione completa e con copiose note di approfondimento delle poesie di Gaio Valerio Catullo, ad opera, la prima, di Guido Paduano, con commento di Alessandro Grilli, e la seconda, di Alessandro Fo, con interventi di Alfredo Mario Morelli e Andrea Rodighiero. All’interno di questi volumi i rimandi alla bibliografia critica internazionale possono dare una prima misura adeguata della vastità e della levatura che tale testo, classicissimo, sta ragionevolmente meritando. Ragioni metriche, fonologiche, ritmiche, oltreché storiche e antropologiche, si affastellano variamente a motivazione del mio interesse musicale attorno a questo testo. Se quasi ogni intervento in questo sito è da intendersi come un work in progress, questo lo è in maniera ancor più evidente: per ora non ho ancora incontrato un testo critico che realizzi in modo pienamente soddisfacente un incontro reale ed effettivo, su questo testo, di esperienze storico-letterarie e di esperienze specificamente musicali. Potrebbe essere, e sarebbe già una buona motivazione, che questo appunto sia in definitiva una preparazione a tale incontro.

Genova, gennaio 2021        

 

Foto di Mariapia Branca

 

Valenze musicali e antropologiche del carme 63 di Catullo

 

File:Mantegna, introduzione del culto di cibele a roma.jpg

 

Il testo che qui presento è effettivamente un primo appunto, avviato ad ampliare e ad assimilare meglio i propri riferimenti bibliografici, e a confrontarsi con altro materiale disponibile. Perciò intendo guernire questa pagina con collegamenti e materiali che possano agevolare tali approfondimenti.

L’appunto in pdf contiene anche un’ipotesi di conversione per teatro musicale del Carme LXIII in cui al testo originale s’alterna una mia traduzione in italiano, rispettante per quel che è possibile la particolarissima metrica catulliana (riporto questa traduzione anche qui sotto). Almeno fino a che non dovesse raggiungere una qualche complessiva completezza, intendo ritornare su questo appunto; in questo senso, sconsiglio di prenderlo a riferimento di un qualunque sapere ben definito sull’argomento. Piuttosto, la sua esposizione in questo spazio spera di promuovere e sollecitare ulteriori possibili interlocuzioni.

Non pretendo di aggiungere nulla a quanto già è stato scritto nel ambito della sterminata bibliografia su Catullo. Già otterrei un buon risultato qualora riuscissi a renderne meno impervio l’accostamento e potessi rafforzare le basi di una tale ipotesi scenica e sonora. La scommessa che si gioca, al fondo di questa pagina , si basa per l’appunto sull’eventualità di rendere più evidentemente percepibile un momento letterario prepotentemente musicale, proprio nel senso della forza della sua forma e della particolarità dei suoi contenuti, ma difficilmente districabile dal più ristretto ambito letterario e filologico. L’idea di fondo è tesa a reinventare il passato, là dove si mostri in qualche modo lacunoso per la comunicazione, secondo percorsi ipotetici potenzialmente infiniti, in grado – per quel che è possibile – di bilanciare approfondimento e invenzione.

Genova, 2013

 

 

 

 

 

“Durante le cerimonie rituali in onore di Cibele … si eseguivano melodie di origine frigia accompagnate dal suono degli élymoi, aulòi di lunghezza diversa, uno dei quali terminava con un padiglione ricurvo all’indietro, e ritmate dai cimbali e dai timpani; gli stessi strumenti erano impiegati nei riti dionisiaci, i Bacchanalia (Giovanni Comotti La musica nella cultura greca e romana EDT, Torino 1980, pag.56-57).

 

 

TRADUZIONE/VERSIONE TEATRO-MUSICALE

 

 

CORO I

(mormorando, con sottofondo di percussioni leggere e legni pp;

velocità della sillaba: ?=112)

 

Super alta vectus, Attis, celeri rate maria

Phrygium ut nemus citato cupide pede tetigit

adiitque opaca silvis redimita loca deae,

stimulatus ibi furentis rabie, vagus animis,

devolsit ili acuto sibi pondera silice,

itaque ut relicta sensit sibi membra sine viro,

etiam recente terrae sola sanguine maculans,

niveis citata cepit manibus leve typanum,

typanum tuum, Cybebe, tua, mater, initia,

quatiensque terga tauri teneris cava digitis

canere haec suis adorta est tremebunda comitibus.

 

CORO II

(mormorando alla stessa velocità;

continuano le percussioni, si fermano i legni)

 

Per profondi mari spinto su veloce legno, Attis,

giunto quindi al bosco frigio, con il piede concitato,

e toccato il suolo cupo delle selve della dea,

colto da rabbia furente e da spirito impazzito,

si tagliò, con pietra aguzza, il suo organo maschile

e, macchiando ancora il suolo del suo fresco sangue vivo,

avvertì le proprie membra vuote d’energia virile,

con le nivee mani prese il tuo timpano leggero,

il tuo timpano, Cibele, tuo strumento iniziatore,

con le dita percuotendo la taurina pelle, lieve

e tremante, alle compagne cominciò così a cantare:

 

SOLO I

(a voce più alta, e con legni più forti;

velocità della sillaba: ?=108)

 

‘Agite ite ad alta, Gallae, Cybeles nemora simul,

simul ite, Dindymenae dominae vaga pecora,

aliena quae petentes velut exules loca

sectam meam exsecutae duce me mihi comites

rapidum salum tulistis truculentaque pelagi,

et corpus evirastis Veneris nimio odio;

hilarate erae citatis erroribus animum.

Mora tarda mente cedat: simul ite, sequimini

Phrygiam ad domum, Cybebes, Phrygiam ad nemora deae,

tibicem ubi canit Phryx curvo grave calamo,

ubi capita Maenades vi iaciunt hederigerae

ubi sacra sancta acutis ululatibus agitant,

ubi cymbalum sonat vox, ubi tympana reboant,

ubi suevit illa divae volitare vaga cohors,

quo nos decet citatis celerare tripudiis’.

 

SOLO II

(sempre con tono più vicino al parlato;

percussioni più forti, velocità della sillaba: ?=108)

 

Presto andate per i boschi di Cibele, vasti, oh Galle,

gregge errante alla padrona che di Dindimo è la dea,

terre estranee esploranti, come esuli sospinte,

dietro me, oh mie compagne, affidaste a me la guida,

affrontaste onde furenti ed il mare vorticante,

eviraste il vostro corpo in odio puro ad Aphrodite!

Fate ilare Cibele con le corse più sfrenate,

perda l’animo ogni indugio, dai, sù, presto, sù venite!

Della dea al tempio frigio, della madre ai frigi boschi,

dove il cembalo risuona, dove il timpano rimbomba,

dove intona il flauto frigio, dalle canne curve e cupo,

dove s’agita la testa cinta d’edera, alle Galle,

dove il culto si conforta con acuti ululati,

dov’è solito il corteo della dea volteggiare,

svelte, là si deve andare coi tripudi più solerti!”

 

CORO I

(intonando in modo più rabbioso e forte;

legni e ottoni, velocità della sillaba: ?=120)

 

Simul haec comitibus Attis cecinit notha mulier,

thiasus repente linguis trepidantibus ululat,

leve tympanum remugit, cava cymbala recrepant,

viridem citus adit Idam properante pede chorus.

Furibunda simul anhelans vaga vadit animam agens

comitata tympano Attis per opaca nemora dux,

veluti iuvenca vitans onus indomita iugi;

rapidae ducem sequuntur Gallae properidem.

Itaque, ut domum Cybebes tetigere lassulae,

nimio e labore somnum capiunt sine Cerere.

Piger his labore languore oculos sopor operit;

abit in quiete molli rabidus furor

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animi.

Sed ubi oris aurei Sol radiantibus oculis

lustravit aethera album, sola dura, mare ferum,

pepulitque noctis umbras vegetis sonipedibus,

ibi Somnus excitam Attin fugiens citus abiit;

trepidante eum recepit dea Pasithea sinu.

Ita de quite molli rapida sine rabie

simul ipsa pectore Attis sua facta recoluit,

liquidaque mente vidit sine quis ubique foret,

animo aestuante rusum reditum ad vada tetulit.

Ibi maria vasta visens lacrimantibus oculis,

patriam allocuta maest ita voce miseriter.

 

CORO II:

(rispondendo in modo sempre più rabbioso e forte;

solo percussioni, velocità della sillaba: ?=120)

 

Ha cantato questo, Attis, falsa donna, alle compagne,

urla il tiaso veloce, ratto e con lingue tremanti,

lieve il timpano rimbomba, cavi crepitano i cembali,

svelto il coro sù si lancia sopra il monte verde d’Ida.

Furibonda ed anelante, affannata, andava Atti,

con il timpano, nei boschi, lei guidava le compagne,

come indomita giovenca che rifiuta il duro giogo,

ed il passo suo incalzante, svelte, seguono le Galle.

Giunte quindi, ormai stanche, presso il tempio di Cibele,

cominciarono a dormire, fiacche, e senza più mangiare.

Un torpore prese, pigro, i loro occhi illanguiditi

e la molle quiete spense il furore devastante.

Ma allorché gli occhi irradianti, viso aureo del Sole,

ne risplende l’aria chiara, l’aspro mare e il suolo duro,

e le ombre della notte coi cavalli fa fuggire,

fieri, e con zampe sonanti, ecco, allora, sfuggì il Sonno

da un Attis, presto sveglio, che accolse Pasitea

presso il suo piede danzante ed il grembo trepidante.

Dal sopore molle uscendo, senza più furia incalzante,

nel suo cuore Attis rivide per intero il suo percorso

e limpidamente intese dove fosse e ciò che fece:

con sconvolto animo, allora, ritornò presso le rive

e, guardando il vasto mare, con lo sguardo lacrimante,

con la voce triste e mesta alla patria si rivolse:

 

SOLO I

(con voce sempre più in evidenza; percussioni e ottoni; velocità della sillaba: ?=94)

 

‘Patria o mei creatrix, patria o mea genetrix,

ego quam miser relinquens, dominos ut erifugae

famuli solent, ad Idae tenuli nemora pedem,

ut apud nivem et ferarum gelida stabula forem,

et earum omnia adirem furibonda latibula,

ubinam aut quibus locis te positam, patria, reor?

Cupit ipsa pupula ad te sibi derigere aciem,

rabie fera carens dum breve tempus est.

Egone a mea remota haec ferar in nemora domo?

Patria, bonis, amicis, genitoribus abero?

Abero foro, palaestra, stadio et gyminasiis?

Miser a miser, querendum est etiam atque etiam, anime.

Quod enim genus figurest, ego non quod obierim?

Ego mulier, ego adolescens, ego ephebus, ego puer,

ego gymnasi fui flos, ego eram decus olei:

mihi ianuae frequentes, mihi limina tepida,

mihi floridis corollis redimita domus erat,

linquendum ubi esse orto mihi Sole cubiculum.

Ego nunc deum ministra et Cybeles famula ferat?

Ego Maenas, ego mei pars, ego vir sterilis ero?

Ego viridis algida Idae nive amicta loca colam?

Ego vitam agam sub altis Phrygiae columinibus,

ubi cerva silvicultrix, ubi aper nemorivagus?

iam iam dolet quod egi, iam iamque paenitet’.

 

SOLO II

(recitato, parlato, con voce più in evidenza; solo percussioni;

velocità della sillaba:?=94)

 

Oh, mia patria creatrice, mia patria genitrice,

come schiavo in fuga fugge ti lasciai, misero me,

e nei boschi su dell’Ida misi piede, per campare

tra le tane d’animali congelate, e tra le nevi,

per cercarne i rifugi, nella mia piena follia.

Dove devo a te pensare, patria mia, in quale luogo?

La pupilla mia, da sola, si dirige verso te,

nell’istante in

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cui il mio cuore liberato è dal delirio.

Io, lontana dai miei luoghi, questi boschi ho da vagare?

Dalla patria, dagli amici, e dai beni e i genitori,

e dal foro, dalla palestra, dallo stadio e dal ginnasio,

io in lacrime, lontana, sempre e ancora dovrò gemere.

Quale genere di immagine io ancora non ho assunto?

Io donna, io adolescente, io efebo, io bimbo;

io che fui fior dei ginnasi, io la gloria degli atleti,

la mia porta era affollata, la mia soglia riscaldata,

la mia casa inghirlandata di corolle floreali,

ora che, al levare del sole, il mio letto abbandonavo.

Ora io a dei ministra, sarò, io, serva a Cybele?

Io menade, io frammento, io, sterile di un uomo?

Vivrò io nei freddi luoghi del nevoso monte Ida?

Condurrò tutta la vita sotto alte vette frigie,

dove son cerve di selva e cinghiali boscaioli?

Già mi duole ciò che feci, già mi pento, adesso, sì!’

 

CORO I:

(intonando; legni, ottoni e percussioni;

velocità: ?=80)

 

Roseis ut huic labellis sonitus <citus> abiit,

geminas deorum ad aures nova nuntia referens,

ibi iuncta iuga resolvens Cybele leonibus

laevumque pecoris hostem stimulans ita loquitur.

 

CORO II:

(recitato, parlato, solo percussioni;

velocità: ?=80)

 

Tale suono uscì veloce dalle labbra sue di rosa

la notizia riportando alle orecchie degli dei;

il nefasto avversario della schiera aizzando,

sciolse il giogo dei leoni, e così parlò Cibele:

 

SOLO I:

(intonando; legni e percussioni;

velocità: ?=94)

 

‘Agendum’, inquit ‘age ferox <i>, fac ut hunc furor <agitet>

fac uti furoris ictu reditum in nemora ferat,

mea libere nimis qui fugere imperia cupit.

Age caede terga cauda, tua verbera patere,

fac cuncta mugienti fremitu loca retonent,

rutilam ferox torosa cervice quate iubam’.

 

SOLO II:

(recitato, parlato; sole percussioni;

velocità: ?=94)

 

Va’ su, disse, va’ feroce, fa che l’agiti il furore

fa che presa dal furore di ritorno sia ai boschi,

ella essere desidera troppo libera ai miei ordini

Va’, colpisciti i tuoi fianchi con la coda minacciosa,

fa che tutti i luoghi vibrino al ruggito tuo fremente,

scuoti rossa la criniera sopra il collo fieramente.”

 

CORO I:

(intonando; solo legni;

velocità: ?=72)

 

Ait haec minax Cybebe religatque iuga manu.

Ferus ipse sese adhortans rapidum incitat animo,

vadit, fremit, refringit virgulta pede vago.

At ubi umida albicantis loca litoris adiit,

teneramque vidit Attin prope marmora pelagi,

facit impetum. Illa demens fugit in nemora fera,

ibi semper omne vitae spatium famula fuit.

Dea, magna dea, Cybebe, dea domina Dindymi,

procul a mea tuos sit furor omnis, era domo:

alios age incitatos, alios age rabidos.

 

CORO II:

(recitando, parlato; sole percussioni;

velocità: ?=72)

 

Questo disse, minacciosa, dea Cybele, e sciolse il giogo,

avanzò quindi la belva da sé stessa incattivita,

che, ruggendo e camminando, spezzò arbusti con le zampe,

e alle spiagge biancheggianti giunse, umide le coste,

e poi vide in fronte al marmo di marea la dolce Attis:

l’assalì. Nella selvaggia selva fugge, l’alienata,

lei è serva di Cibele per il resto della vita.

Grande dea, dea Cybebe, dea e domina di Dindymo,

fuori restino da casa mia i tuoi aspri furori

altri guida, concitati, altri guida, imbestialiti.

 

 

Francesco Denini