Ground. Lettere sulla musica è un libro particolare.
Pubblicato per i tipi dell’Edizione Joker, rappresenta per molti versi un libro composito e leggibile in molti modi.
In molta parte letterario e solo per cenni filosofico, il suo nucleo ruota attorno alla musica e ad alcuni suoi modi di interrogarsi prevalentemente occidentali: musica oltreché per piacere, per riflettere e far riflettere su cose ultime, sui ground dell’arte, della conoscenza, della soggettività, dell’esistenza, del mondo, qui affrontati nei modi spontanei ed immediati che gli autori hanno trovato più prossimi allo spirito delle serate passate insieme ad ascoltare musica.
Il libro si muove attraverso suggestioni letterarie che naturalmente rimandano a diversi mondi del pensiero, senza però svilupparne con precisione nessuno, se non per cercare qualcosa che si avvicini a individuare una risposta, finanche solo suggestiva, alle domande ‘cos’è la musica’ e ‘cos’è la poesia’.
Contiene nella prima sezione uno scambio epistolare tra gli autori (qualche anticipazione è stata già pubblicata sul web), ovvero lo scrittore e psichiatra Marco Ercolani e il sottoscritto, Francesco Denini. Le lettere sono corredate da indicazioni utili per l’ascolto dei brani musicali di volta in volta citati (spesso con riferimenti in rete). Senza la minima pretesa di esaurire neanche lontanamente campi musicali a volte appena accostati, potrebbe accadere comunque che il lettore si trovi a condividere squarci d’ascolto forieri d’ulteriori e molteplici approfondimenti.
Nella seconda parte il libro presenta un breve saggio intitolato “Marsia, la pelle del tempo”, che propone una mia riflessione relativa ai rapporti tra scrittura musicale occidentale, interpretazione e ascolto musicale, ispirandosi e rielaborando il mito antico di Marsia e Apollo.
La terza parte infine, la più autenticamente e squisitamente letteraria, offre una fantasmagoria di apocrifi di Marco Ercolani, che s’insinuano negli interstizi delle vite e gettano squarci imprevedibili sulle emozioni, i pensieri creativi e i vissuti più estremi e particolari di un buon numero di musicisti tra i più significativi e radicali della storia della musica dal Quattrocento ad oggi.
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“Perché un libro “a quattro mani” di lettere e di saggi sulla musica, antica e contemporanea? Perché uno scrittore e un musicista si confrontano sul tema? Quale necessità li muove? Forse la più semplice: dare voce a un’antica amicizia che, da sempre, li vede interrogare la musica come una filosofia sonora che traversa il mondo. Non è di sola musica, che parla questo libro, né di solo pensiero, ma di una corrente comune che non esige soltanto la materia sonora o la riflessione sul suono ma li convoca insieme, in un dialogo concertato e inattuale dove Dioniso, Marsia, Bach, Beethoven, Couperin, non smettono di parlarsi. Ground è il fondo oscuro della musica e della parola, quel basso ostinato che chiede alla musica di narrarsi e alla scrittura di risuonare. “Perché amo così tanto Couperin? Perché a volte oppongo il suo f luido improvvisare alla serietà magistrale di Bach? Non ho mai creduto che Couperin fosse privo di un suo personale rigore ma trovo nella fluida ossessione delle sue note una libertà rara, che ritrovo solo nell’ultimo Mozart” (M.E.). “La poesia è un chiedere alla parola di aiutarci a individuare forme di senso così penetranti e sottili da spiazzare ogni luogo comune del senso, la stessa sensatezza presunta dell’essere rispetto ai percorsi supposti del divenire, la stessa sua oggettività rispetto al fluire delle nostre coscienze?” (F.D.).
Marco Ercolani, Francesco Denini M.E., F.D.”
Francesco Denini
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APPUNTI
DICEMBRE 2024
Molte idee da noi espresse in Ground vogliono apertamente essere intese come degli appunti intuitivi e delle idee in corso di formazione. Se però nulla è completamente definito, molto è a tratti abbozzato, suggerito e lasciato aperto a indefiniti sviluppi. E così per noi doveva essere.
Sento qui il bisogno di documentare alcune delle ricerche che via via possono portare ad almeno alcune delle mille integrazioni, delle mille vicende, dei mille sviluppi che questo ‘pensare per suggestioni’ può variamente implicare (in me e, posso immaginare, anche in Ercolani). E chissà che tale bisogno di seguire le tracce delle nostre suggestioni possa coinvolgere qualche lettore che dovesse incontrarlo, in ossequio al tratto dinamico e intuitivo – e forse potremmo dire ‘iniziale’ – di questo nostro scrivere e ascoltare insieme. Provare a rivolgere momenti d’attenzione particolare ai ‘fondamenti’ abissali della soggettività, nel nostro caso muovendoci tra musica, letteratura, pensiero e vita, si spera possa sfaldare molte certezze lungo i piani della cura e della formazione, e qua e là anche ingenerare differenti prospettive e sensibilità. La consapevolezza di muoverci su un difficile crinale, inteso all’apertura all’altro e attento alle sue molteplici e specifiche configurazioni, non ci è mancata e continuerà ad animare non credo solo questi miei appunti.
Per quanto mi riguarda, non dimentico poi che in questa impresa sono per molti versi un ospite, e che distinguere e rispettare le eventuali differenze tra Marco e me è già un primo passo per compierla davvero tale apertura. Queste differenze potrebbero essere già un elemento portante di Ground: un dialogo tra un pensiero più immediatamente ed empaticamente aperto all’altro e un pensiero alla ricerca di più delineate e a tratti più astratte mediazioni.
1. Numero e figura
L’incontro sul web, avvenuto dopo la pubblicazione di Ground, di una recensione di Stefano Cardini (del 2010) all’Album per la teoria della musica greca di Giovanni Piana, mi ha spinto a cercare questo testo direttamente presso il sito di Giovanni Piana, mettendomi al cospetto di una prospettiva decisamente stimolante rispetto al mio scritto Marsia, la pelle del tempo. Il breve commento successivo di Carlo Serra alla nota di Cardini mi ha poi permesso di guardare ancora più a fondo all’intera prospettiva filosofica dell’Album di Piana: “l’idea di rimandare alla prospettiva sulla ricorsività che sostiene Numero e figura è un eccellente viatico per riaprire una discussione sull’idea di operazione, interna alla riflessione fenomenologica fin dagli esordi husserliani, e che le molte letture della fenomenologia schiacciate sui portati della Crisi delle Scienze Europee hanno un po’ troppo trascurato. Forse è tempo di ripensare davvero queste tematiche, per coglierne la notevole ricchezza anche in direzione del tema filosofico dell’ascolto musicale, con il suo implicito intrecciarsi d’orizzonti di attività e passività”. Va da sé che incontri di questo tipo aprono a riconsiderazioni che richiedono un più ampio tempo di maturazione. Ma sono anche gli incontri che la pubblicazione di Ground spero vivamente sappia ingenerare almeno in me. In particolare Carlo Serra viene ricordato in Ground, anche se solo in nota, per il suo mirabile libro Come suono di natura. Metafisica della natura nella Prima Sinfonia di Gustav Mahler (2019), dall’impostazione per molti versi distante rispetto a quelle da me predilette di Hugues Dufourt (e in parte di Theodor W. Adorno), ma anche per questo foriera di autentico interesse.
In prima istanza si potrebbe annotare come la prospettiva di tornare a porre l’attenzione sull’idea di numero anche in termini fenomenologici riguarda senza dubbio il nostro modo, moderno, galileiano, di rapportarci al pensiero musicale antico, anche e proprio nelle sue componenti pitagoriche e mitiche. La critica husserliana della visione galileiana del rapporto tra realtà e numero muove dalla considerazione che le essenze ideali-esatte della geometria abbiano avuto origine a partire da atti di determinazione pratici. E tale critica coincide con l’esperienza stessa della scrittura musicale moderna in rapporto alla teorizzazione pitagorica. Ma ciò escluderebbe anche la matematizzazione moderna della musica dalla sua stessa esperienza percettiva, concettuale ed estetica? A questa domanda tenta di rispondere Mathesis e subjectivité di Hugues Dufourt, muovendo dalla ricostruzione della storia della musica occidentale che propone Max Weber. Ed è qui, direi, che si pone la questione: come confrontare l’idea di razionalizzazione di Weber con l’idea di costituzione interna al soggetto delle idealità geometriche e il rapporto che tali idealità intrattengono come omogeneità contenutistica con l’estensione del mondo della vita. Le premesse teoriche di Come suono di natura di Serra sono le prime da indagare in questo senso. Ma la proposta di tornare al testo di Numero e figura, magari confrontandolo non tanto con Dufourt quanto direttamente con Max Weber, è davvero il lavoro che mi sembra prospettarsi dopo il Marsia.
2. Halbbildung e Midcult
Può essere che Marco Ercolani, per sua formazione poetica, non si appassioni particolarmente a riferimenti simili a quelli indicati nel titolo, mentre io ho sempre sentito il bisogno di riportare la soggettività ad una visione per così dire “dall’esterno” – con un occhio dentro e un’occhio fuori dalla sua stessa dialettica. In questo senso spero che Marco possa accettare che, almeno qui, io mi spinga a pensare che anche Ground – almeno nelle sue istanze di partenza (prima di lanciare più in là le sue più vive intuizioni) – corra il rischio di muoversi entro quella che l’Umberto Eco di Apocalittici e Integrati1 (sulle orme di una proposta di Dwight MacDonald) avrebbe chiamato midcult o che Theodor Adorno, pochi anni prima, in diverso ambito e con tutt’altra prospettiva, aveva chiamato Halbbildung.2 Si tratta di testi di un’epoca che naturalmente non è la nostra, ma che fotografano ancora bene problemi di fondo da cui partire per interrogarci sul presente. E l’unico modo per uscirne vivi, direi, è quello di affidarsi alle loro riflessioni partendo dai propri limiti e considerando la propria formazione comunque incompleta rispetto all’ideale tedesco di Bildung e, nella migliore delle ipotesi, come un perenne work in progress.
Per quanto mi riguarda, posso contare su parziali preparazioni circa il greco antico, il latino e lingue moderne come il francese, il tedesco e l’inglese (di cui, certo, ho letto molto le letterature avvalendomi in parte delle traduzioni), credo di conoscere abbastanza bene la storia della filosofia e la storia della musica, sin da bambino ho potuto coltivare un rapporto solido con l’arte visuale e ho avuto una formazione musicale molto vicina a potersi dire ‘completa’ (in virtù della quale ho costruito la mia professione), ho quindi avuto un rapporto diretto e prolungato con la psicanalisi ed ho letto molto in molte direzioni, ma il miraggio di una Bildung e di una Kultur ideali si è costantemente allontanato nella mia vita, senza che smettessi di inseguirlo ostinatamente: il tentativo di formarmi lungo il miraggio di un raggiungimento ideale, per lo meno in ossequio alla natura della musica tedesca e più generalmente europea, mi ha sempre animato, formandomi all’individuazione di una frustrazione ottimale, al di là di ogni pretesa ‘specializzazione’ musicale e di ogni concreta impossibilità di esserne all’altezza. Può bastare per scrivere un libro dai vasti interessi, dagli improvvisi collegamenti e dalle riverberanti sensibilità, qual’è Ground?
L’immediatezza di comunicazione attraverso ‘riferimenti-cenno’ può essere uno strumento intuitivo indispensabile, se inteso quale punto di partenza per approfondimenti ulteriori. In questo senso in Ground intervengono le indicazioni per l’ascolto e le Note infondo alle lettere, ma non sempre per circoscrivere il campo. Una delle lettere più ‘abissali’, nonostante la sua brevità, potrebbe essere la sesta, quella intitolata Hölderlin e la musica. A distanza di tempo dalla stesura di Ground, il rimando in nota a Giorgio Vigolo, il traduttore di Hölderlin per l’Einaudi, allorché scrive Quali musiche suonò Hōlderlin?, e poi alla traduzione dell’opera poetica per Adelphi, di Enzo Madruzzato e quindi, nella lettera precedente, alla vasta presentazione di Remo Bodei all’Iperione di Hölderlin possono nell’insieme soccorrere adeguatamente alla mediazione linguistico-culturale di uno dei poeti più studiati e commentati della letteratura tedesca. Ma, per quanto parziali, restano opere molto vaste e più facili da indicare come contrafforti che da frequentare esaurientemente. Per di più, il passo del saggio Sul tragico citato da Ercolani non è esattamente lineare e implicherebbe un controllo adeguato al testo in lingua originale (a cui intendo dedicarmi in questo spazio). Se poi ci si spinge davvero a confrontare il citato passo di Hölderlin con l’attualissimo senso di ‘follia’ epistemologica che introduce Ercolani, rimandando a Bejamin Labatut, allora non si potrà che dirsi fuori da ogni perimetro di controllo.
Inoltre, i rimandi musicali della sesta lettera, pur limitati alle sole quattro ultime Sonate per pianoforte di Mozart (K.457, K.533/494, K.545, K.570 e K.576) e limitandosi a poche interpretazioni pianistiche, si affacciano su una potenziale panoramica web davvero molto vasta: per la sola sonata K. 457 in do minore, ci siamo limitati a citare quelle che abbiamo ritenuto essere le più autorevoli interpretazioni, ossia quelle di Friedrich Gulda, Grigorij Sokolov e Emil’ Gilel’s, ma avremmo dovuto, se lo spazio ce lo avesse permesso, aggiungere le notevolissime interpretazioni di Alicia de Larrocha, Alfred Brendel, Andras Schiff, Maria Joao Piras, Sviatoslav Richter, Maurizio Pollini, Claudio Arrau, Mitsuko Uchida, Daniel Barenboin, Vladimir Ashkenazi, Michael Pletnev, finanche Maria Yudina e altri ancora. Ed anzi un musicista capace di oltrepassare le barriere tra musica e letteratura (barriere difficili anche per i massimi vertici della letteratura come Leopardi e lo stesso Hölderlin – e questo fa molto riflettere sullo sforzo alla base di Ground) dovrebbe sapersi muovere tra queste interpretazioni sapendone tradurre in parole le diverse sfaccettature; sfida quasi impossibile e che per l’appunto, almeno qui, potrei tentare prima o poi.
Naturalmente questo è solo un esempio di quanta distanza separi Ground dalla sua stessa idea di formazione, dalla sua stessa aspirazione alla Bildung. E proprio qui Adorno sembra gettare l’unico salvagente che sembra avere davvero a disposizione, capace di riscattare almeno nelle sue potenzialità dinamiche Ground: “…, se lo spirito fa ciò che è socialmente giusto solo quando non si dissolve nell’indifferenziata identità con la società, è giunto il tempo dell’anacronismo che consiste nel tener fermo alla Bildung, dopo che la società l’ha privata della sua base. Ma essa non ha altra possibilità di sopravvivenza fuorché quella che consiste nell’autoriflessione critica sulla Halbbildung che essa è necessariamente diventata.” (p. 51) E per procedere a tale autoriflessione critica la Halbbildung “potrebbe essere combattuta efficacemente solo a condizione di operare sul nucleo profondo della psiche: di sciogliere le sue sclerotizzazioni fin dalle prime fasi evolutive, e rafforzare la capacità di riflessione critica.” (p. 47)
Ed è così che, ma solo con la lettera 27 di Ground, le insospettabili intercapedini letterarie che collegano brani musicali come il poema sinfonico di Richard Strauss Till Eulenspiegel ai mondi dei Looney Tunes Cartoons sembrano con uno strappo tirare le fila che unirebbero ontologia dell’essere e della libertà col teatro dell’assurdo, comicità primordiale del cinema con le componenti shakespeariane in Beethoven, psicologia analitica jungiana con l’orchestrazione postwagneria o Dylan Dog col neodadaismo di Le Grand Macabre di Ligeti. Procedere per intuizioni può voler dire anche effettivamente procedere talvolta ‘per strappi’ (mi ha tra l’altro colpito venire a conoscenza recentemente di una matematica degli strappi). E comunque in questi appunti la mia intenzione è rincorrere almeno un poco tali strappi, anche a costo di pagare un qualche pegno alla pedanteria. In questo senso, ripercorrere le analisi di Eco relative al Kitsch e al Midcult, tornando nel dettaglio al suo rapporto con Adorno in particolare in ambito musicale, può forse essere, e non per paradosso, il modo più giusto per fare i conti con quella Halbbildung che ci può aver condizionato e ci condiziona irrimediabilmente.
Il lavoro di Eco getta le reti in maniera molto più ampia nell’indagine specifica, là dove Adorno è mosso da intenzioni più teoriche in riferimento in particolare al concetto di ‘feticcio’. E talvolta rasenta, Eco, la mera elencazione di fatti e vicende, traendo le conclusioni solo alla fine in maniera anche piuttosto debole (come nel capitolo La musica e la macchina), oppure restringe la sua attenzione a un fenomeno esemplificativo per parlare larvatamente anche di altri. E colpisce intanto constatare l’enorme passo in avanti che, anni dopo l’uscita di questo libro, si avrà in Italia rispetto all’interpretazione del pensiero di Nietzsche e agli scossoni da lui dati rispetto all’uomo di formazione e all’uomo-massa, l’uomo di informazione (ed Eco può solo preannunciarlo con riferimento al lavoro di Vattimo, senza poter prevedere il grande impegno di Colli e Montinari). Ma il nucleo che resta utile è tutto nella definizione di midcult e nel come Eco la collochi all’interno di una semiotica della forma, del contesto e dell’uso dell’opera, tale da rilevare nel midcult un effetto d’attrazione che attiene alla struttura del cattivo gusto, struttura che mi sembra di poter dire estranea a Ground almeno nella misura in cui i suoi impressionismi locali non intendono affatto ridurre le ambiguità dei rimandi per agevolarne una fruizione media gestibile (e tendenzialmente passiva), ma s’immettono subito nel ritmo di una follia di riferimenti volta a ritrarre complessità-limite, relative ad esperienze come la ‘cura’, l”inizio’, l”evento’, il ‘possibile’, l”ascolto’, la ‘specificità’, la ‘libertà’, la ‘forma’, il ‘tempo’ con rimando stringente alla musica e alla poesia.
Il dubbio nostro attiene, se mai, alla concreta opportunità di individuare significati univoci in ambiti così intenzionalmente ambigui e talvolta spiazzanti come la poesia e la musica, colti storicamente e criticamente, ma quasi dall’interno nella loro dimensione di più estrema autonomia. Tale dubbio dovrà certamente essere affrontato altrove analiticamente. Ma il nostro intento era quello di affrontarlo volgendoci nella direzione opposta, la direzione che accedesse a una veduta iperbolicamente allargata delle cose, per intuirne il senso irraggiungibile dell’insieme. Progetto a rischio di kitsch forse, ma direi non certo di midcult; progetto immesso in un’inevitabile Halbbildung ma nei modi refrattari a ogni più trito feticismo. Può bastare?
Per quanto distanti tra loro, sia Adorno sia Eco sarebbero interessati a trarre dall’osservazione critica – anche dalla nostra su noi stessi – delle conclusioni di natura ideologica circa i nostri oggetti musicali e il nostro modo di intenderli. La visione della storia di Ercolani è esplicitata nell’immagine dell’inadeguato in cui si rispecchia (lettera 32), che condivide con i suoi pazienti psichiatrici (e che io pure condivido): “Ho curato i miei matti perché loro, con me, condividevano quest’altra realtà: essere inadeguati. Non importa poi se chi è inadeguato fa cose buone. Comunque, lo resta, e non è mai soddisfatto. Il tempo che lui costruisce non so se riesce a vedere con precisione la storia. Credo, al contrario, che la storia per lui sia solo la conferma di certe fantasie di distruzione.” A questa visione io esplicito un rimando, anche musicale, verso la visione benjaminiana della storia come successione di rovine, la storia musicale occidentale non come la leggerebbe Apollo, ma come la leggerebbe Marsia (lettera 33). Visione apocalittica? Non direi, se da questa visione di rovine ne sorge il suono di una domanda sempre aperta: “La storia umana può essere vista come la serie di sconfitte di un giocatore che non può non perdere per le troppe variabili da controllare e non può non ritentare perché è in gioco letteralmente la vita?” Lasciare aperta una tale domanda, lasciarla lavorare nella sua apertura, potrebbe voler dire arrivare al fondo ‘senza fondo’, al ground appunto, del senso critico, alla sua natura storica e alla sua critica storica, come eminentemente può emergere dalla più autonoma delle poesie e dalla più autonoma delle musiche.
- Umberto Eco Apocalittici e integrati Bompiani, Milano 1978 (seconda edizione),1978 I capitolo: Cultura di massa e ‘livelli’ di cultura.
- Theodor W. Adorno Teoria della Halbbildung, il Melangolo, Genova 2010 (tad. it. di M. Gennaro).
3. Sonata per pianoforte K. 576 di Mozart
A proposito della Sonata per pianoforte n° 18 K. 576 di Mozart, citata in calce alla lettera 6, ho indicato tra le opzioni d’ascolto (in questo caso assumo su di me la scelta) due interpretazioni: una di Maria João Pires per la Deutsche Grammophon del 1974 e una di Martha Algerich, registrata a Colonia il 23 gennaio 1960. Avrei naturalmente potuto indicare anche altre interpretazioni, ma limitandomi in particolare alle interpreti indicate, devo dire piuttosto che andrebbero sostituite le interpretazioni, la prima con una registrazione, sempre della Pires, del 1 gennaio del 1992, e la seconda con una registrazione, sempre della Algerich, del 13 maggio 2016 (entrambe per la Deutsche Grammophon). Dinamiche, fraseggio, connessioni tra sezioni e soprattutto capacità di sorprendere attraverso inflessioni talvolta anche minime arrivano all’orecchio in entrambe le più recenti versioni all’interno di un flusso tenuto perfettamente ‘a metronomo’. Entrambe le pianiste, in modi diversi, restituiscono davvero il dinamismo contenuto entro la forma ‘cristallina’ di questa composizione. Impresa a mio avviso anche più difficile in questa Sonata 18 K. 576 rispetto ad esempio a quella, più potente e drammatica, concernente la Sonata 14 K. 457. Anche di recente ho sentito altre interpretazioni di altri straordinari pianisti, come quella di Mikhail Pletnev (che, in particolare nel Adagio, mi sembra rispecchiare molto bene l’idea hölderliniana evocata da Marco Ercolani), ma attualmente la mia predilezione rimane quella indicata, ossia per Pires e Algerich nelle versioni però più mature qui precisate. Non sono per altro nemmeno in grado di ricostruire se queste correzioni siano il portato di un’errore di trascrizione degli identificativi discografici risalenti ai tempi in cui redigevamo il libro o a una più recente messa a fuoco del materiale musicale specifico. E comunque, va da sé, la ricerca continua.
4. Alla Goethe Haus
Ultimo dell’anno 2024 a Francoforte. Visita alla casa di Goethe. Naturalmente, ricostruita dopo i bombardamenti del 1944 e oggi adibita a museo (miglior sorte infondo sembra aver avuto la casa museo di Manzoni a Milano, che per lo meno non mi risulta abbia subito bombardamenti). La Goethe Haus di Francoforte ospita anche una pregevole esposizione relativa al primo Romanticismo, con molti quadri di ritratti e molti documenti resi variamente accessibili. Diversi spazi espositivi espongono reperti relativi al giovane Goethe, storicamente e criticamente ben presentati, che si estendono opportunamente al mondo del più diretto suo entourage: illuminismo e sentimenti, la Lotte dei “Dolori del giovane Werther”, il mondo di Faust (finanche cinematografico, da F. W. Murnau a Tim Burton), Herder, i fratelli Grimm, Chamisso, Brentano e von Armin, animazioni e siluetttes, l’Hoffman dell’elogio al Beethoven ‘romantico’ ed altro ancora. Seguo la mostra lèggendo le molte didascalie in tedesco con un continuo, obbligato confronto con le relative didascalie in inglese, perché questo è rimasto il mio livello di conoscenza della lingua di Goethe: oltre che Halbbildung, anche Halbkultur, quindi (se così si può dire). L’unico minimale incontro schubertiano lo trovo nel bookshop: un cd di Lieder di Schubert e di Schumann. Un bello spazio (che ho seguito per intero) è invece dedicato al Faust di Schumann, munito di visione animata ed ascolto in cuffia, con tanto di manoscritti del compositore e ricco di rimandi direttamente al testo goethiano (che conosco e ricordo abbastanza bene, memore di un serio esame di Lingua e letteratura tedesca sostenuto dell’Università con la professoressa Giavotto Kunkler).
L’umore non certo alto, dovuto anche a notizie non buone di diversa provenienza, si mescola a questo raffronto tra la lingua tedesca che avrei amato conoscere e quella che sono stato capace finora davvero di conoscere. L’immediatezza soggettiva di Ground era lecita? Sì, no? Al termine dell’esposizione sul Romanticismo, ospitata nella Goethe Haus, il pubblico è invitato a rispondere a un questionario all’interno del quale spicca la seguente domanda: che differenza c’è tra Romanticismo e Kitsch? Quale migliore domanda per esprimere il mondo di dubbi, personali e non, che mi attraversa leggendo l’Adorno della Halbbildung? La cultura è forse ormai davvero questo paesaggio bombardato, sia a livello storico sia a livello personale, proprio e ancor più al cospetto del grande padre della Bildung tedesca ed europea, e incrinato già dai tempi postilluministici del primo Romanticismo, cioè praticamente dall’inizio? Mi rendo conto che sto ragionando per emozioni. Se il primo Romanticismo si differenzia dal Kitsch è forse solo per una sua minima resistenza alla sua naturale inclinazione a finire nel Biedermeier o per un ampliarsi irreversibile nella soggettività del divario tra il Padre della Bildung europea e la nostra – per non parlare della mia – condizione? Me lo chiedo anche in sogno e una figura femminile mi risponde secca, “Non hai coraggio”.
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GENNAIO 2025
5. Adorno-Denkmal (2003 – 2025)
I. (un non-monumento)
La visita al monumento che la città di Francoforte ha dedicato per il centenario della sua nascita a Theodor Wiesegrund Adorno mi dà l’occasione per chiarire la vicenda personale che mi portato a leggere con viva partecipazione i suoi libri e che in Ground solo apparentemente sembra confinata al rimando esplicito rivolto al suo libro su Beethoven e al suo epistolario con Thomas Mann. A mio avviso si tratta di un monumento, oltreché opportunamente privo della benché minima ‘monumentalità’ e collocato in una piazza a lui dedicata su cui s’affaccia puntualmente un auditorio, anche permeato, a mio avviso, di un sincero e affettuoso sentimento di riconoscimento: sotto un semplice parallelepipedo rettangolo di vetro trasparente è protetta dall’ambiente esterno una scrivania in legno, probabilmente la reale scrivania di Adorno, su cui sono rimasti alcuni fogli dattiloscritti, alcuni, pochi, elementi per scrivere e un metronomo. Il parallelepipedo è quindi circondato da alcune frasi scritte a terra, sulla pietra, tratte rispettivamente da Minima moralia, Philosophie del neue Musik, Negative Dialektik e Aesthetische Theorie.
Der Zweck des Kunstwerks ist Bestimmtheit des Unbestimmten.
[artista: Vladim Sakharov: riporta le citazioni]
II. Prime letture
In quinta ginnasio – torno col ricordo agli Anni Settanta – un’eccellente professoressa di Lettere ci assegnò un tema relativo all’importanza e al senso del dono. Lo fece citando l’aforisma Umtausch nicht gestattet tratto dai Minima Moralia di Theodor W. Adorno (‘Non si accettano cambi’, nella versione di Renato Solmi), precisando che non era interessata a svolgimenti legati esplicitamente all’autore e che la citazione serviva più che altro da spunto introduttivo. Nonostante le sue intenzioni, il ‘dono’ si rivelò comunque per alcuni di noi la citazione stessa. Dopo qualche tempo infatti l’edizione “Reprints”dell’Einaudi (1974) con traduzione di Sergio Solmi (1954) dei Minima Moralia (1951) capitolò sul mio disordinato comodino, oltreché sull’elegante scrivania di un compagno di studi, Paolo Bernardini, col quale iniziai una lettura di Adorno che mi vedeva più che altro nel ruolo ‘autorevole’ – e sostenuto naturalmente con mille limiti – di ‘consulente musicale’. Avevo, grazie a mio padre e a Raffaele Cecconi (allora giovane ed entusiasta professore di Conservatorio) già avuto una notevole introduzione all’arte e alla musica contemporanea (di cui sarò loro sempre grato), ma naturalmente la conquista di un ascolto più ampio e tecnicamente cosciente della musica della Seconda Scuola di Vienna richiese, di fatto, molti anni. Anche se, comunque, dischi e qualche partitura di Nono, Berio, Maderna, Bussotti, Feldman e anche di Debussy, Bartok, Schoenberg, Berg e Webern stavano effettivamente passando con profitto nelle nostre mani di giovani studenti. E, insomma, incontrare un filosofo intriso di Nuova Musica (come veniva chiamata allora) accese in me un autentico interesse. Da allora per me la lettura di Adorno è stata un’attività ricorrente, non senza oscillazioni e difficoltà, con momenti d’intima partigianeria e momenti di maggior obiettività critica. La mia conoscenza ha compreso i suoi più importanti testi musicali e filosofici, fermandosi negli anni sul confine della lingua tedesca, che ho cominciato ad accostare solo in età matura e che in minima parte ha raggiunto oggi un qualche livello di comprensione dei testi originali. Questo fa di me un uomo che ha cercato di pensare molto attraverso Adorno, ma non certo un suo ‘specialista’. Il mio interesse giovanile è andato subito ai Minima Moralia, mentre con Philosophie der neue Musik (1949) l’impatto è stato decisamente più sofferto, per molti motivi: la critica a Debussy e Stravinskij e al collegamento musica/pittura entravano direttamente in collisione con la formazione che stavo ricevendo. Non ero interessato però a ‘giudicare’ Adorno, ma miravo piuttosto a formarmi intellettualmente presso alcune sue prospettive. In particolare, l’ascesa necessaria a un linguaggio filosofico commisto di diverse interferenze psicoanalitiche e sociali mi ha sin da giovane convinto. Solo più tardi mi resi conto che tali commistioni non erano poi così ovvie e che la filosofia, anche quella trattata da Adorno, era anche molto altro. Ci volle di fatto qualche anno perché potessi arrivare ad accostare davvero Negative Dialektik (1966) e Aesthetische Theorie (1970) comprendendone i riferimenti e le polemiche interne. Le quattro opere qui da me ricordate sono le opere che il commovente monumento ad Adorno – in Theodor W. Adorno Platz, a Francoforte – cita esplicitamente. Ed effettivamente ha senso concentrarmi su questi lavori. Anche se penso che il suo libro più toccante, insieme a Minima Moralia, ma in un senso più specificatamente musicale, sia il libro dedicato al suo maestro di composizione di Vienna, l’Alban Berg (ed oggi mi sembra di percepire meglio la doppia natura francofortese e viennese di Adorno, nei tratti più hindemithiani, essenziali, e in quelli più tragici, berghiani delle sue composizioni).
III. Messe in guardia
Molti sono stati negli anni gli inviti a me rivolti affinché non concentrassi la mia attenzione su Adorno, che peraltro già di per sé mi imponeva la lettura di Marx, Freud, Benjamin e di tutta la filosofia di Otto e Novecento. Una lettura che si espandesse a macchia d’olio la feci naturalmente con la guida della scuola prima e dell’università dopo, per altro condotta, questa, già lavorando e lentamente. Ma gli inviti suonavano più come una più o meno esplicita confutazione che come un’estensione: penso a certune raccomandazioni di Sylvano Bussotti, a una cartolina di Elvio Facchinelli (del 1986, se ricordo bene), e più tardi a discorsi di docenti universitari da me apprezzati (compreso il mio correlatore per la tesi, Oscar Meo) e poi al compositore Fabio Vacchi, in linea con Jean Jacques Nattiez, sino – da ultimo – a quello stesso mio amico di ginnasio, diventato negli anni Rettore di Università e spostatosi su fronti radicalmente liberali, Paolo Bernardini, ed infine ancora, seppure non esplicitamente, anche all’amico Marco Ercolani. In linea di massima ho sempre ascoltato con un orecchio queste raccomandazioni, senza seguirle mai completamente. In termini generali, il libro Il pensiero debole, del 1983, aveva già riassunto per l’Italia molte delle posizioni di circostanziata relativizzazione del pensiero di Adorno (o almeno così direi, se penso, per lo meno, al modo più esplicito del saggio finale di Franco Crespi: Assenza di fondamento e progetto sociale). Di queste cose divenni già allora consapevole. E non credo, insomma, che la mia sia stata ostinazione, quanto il dubbio che fosse stato emesso da qualche tribunale kafkiano un verdetto non mai bene esplicitato su Adorno. E per contro ho sempre avuto l’idea che Adorno per primo non avrebbe caldeggiato in vita una fanatica, acritica partigianeria nei suoi confronti. E probabilmente si sarebbe saputo adeguare lui stesso ai tempi che vedevo cambiare (dopo di lui). Si tratta di un uomo che è mancato lo stesso anno in cui è mancato mio nonno, quando io avevo otto anni. Ed effettivamente l’ho sempre considerato prima di tutto un testimone di quella stagione. In questo senso ormai da anni la mia valutazione è piuttosto pacificata, sebbene assolutamente non neutralizzata. Credo di comprendere molto bene l’evoluzione di Habermas e gli sforzi compiuti da più parti verso mediazioni di vario genere tra Adorno ed Heidegger, davvero per molti versi il più profondo filosofo del Novecento. Capisco anche, per altra via, il consueto sguardo ironico, manifestato da Thomas Mann per così dire ‘al termine’ dell’amicizia in realtà per entrambi proficua col giovane Adorno. E ho apprezzato l’argomentazione mai polemica (benché molto critica, prevedibilmente), di un Lukacs, là dove la vis polemica di Adorno talvolta mi è parsa effettivamente girare a vuoto (o nel caso di Heidegger essere già compresa e anticipata dalla stessa filosofia heideggeriana). Per molti anni solo un esperto giornalista della pagina culturale del quotidiano ‘Il Secolo XIX’ e di altre testate nazionali, Antonio Grottin, mi ha intrattenuto con lunghe e nutrienti chiacchierate occasionali – non di rado incontrandoci per caso in qualche libreria della città (a ripensarci, gli unici momenti della mia vita che mi si possano avvicinare al vissuto di incontri socratici moderni) – e in tali chiacchierate la figura di Adorno, tra le altre, veniva valutata con l’equilibrio e l’attenzione che cercavo, sempre in modo partecipe, per una sua intima e mai superficiale motivazione appassionata, apprezzando soprattutto la prospettiva particolarmente attenta a una soggettività posta sulla soglia della mediazione con la società e la storia. Per queste ragioni sarò sempre grato a Nino Grottin e alla sua disponibilità culturale nei mie confronti (che spero di saper sempre conservare).
IV. Fin dentro il XXI-esimo secolo
Mentre rimango legato ‘amichevolmente’ a Minima Moralia (poco importa che condivida tutto o parte), continuo a trovare difficoltà proprio rispetto a non poche delle argomentazioni di Philosophie der neue Musik e sento che prima o poi dovrò tornare più attentamente su alcuni rapporti che con Kant e Hegel ha Negative Dilalektik, rapporti che potrebbero concernere dimensioni del pensiero più immediatamente in contatto con l’altro da sé, capaci di convivere e confrontarsi con la sua dialettica. Mentre invece mi soddisfa a pieno la recente difesa da parte di Remo Bodei di Aesthetische Theorie. Certo, ci sono aspetti della filosofia di Adorno che sembrano arroccarsi su posizioni così ostinatamente teoriche da risultare effettivamente aristocratiche. Per contro, da quando tutta la sinistra mondiale è stata attaccata per presunte posizioni elitarie da populismi palesemente antidemocratici e emergenti ‘personalità autoritarie’ di nuovo conio tale critica sembra subire una qualche torsione a parziale favore di Adorno. Ed in realtà moltissime cose sono cambiate, restando costante l’avanzamento del connubio capitalismo/tecnologia che sembra volersi disfare pericolosamente delle stesse mai certe libertà democratiche, mostrando anche così il vecchio volto totalitario. Insomma, molte cose sono cambiate. Non credo sia cambiata molto l’azione critica della musica contemporanea nel mondo moderno. Sono però del tutto rivoluzionati, direi, i suoi rapporti con altri generi musicali, al punto che proprio le considerazioni relative alla pop music e al jazz sono certamente tra le componenti più datate del suo pensiero. Circa il jazz per altro va detto che il suo sostegno alla sua allieva illustre Angela Davis corregge nei fatti, a mio modo di vedere, il vecchio imbarazzante saggio Sul jazz del 1936. Ed anche la sua teoria estetica si affaccia in parte ai temi della Pop Art solo su un versante più pianamente critico della società. Ma comunque la mole del suo lavoro resta, credo, una presenza capace di esprimere un monito critico con cui confrontarsi, e comunque utile, la voce di un finissimo grillo parlante, ancora efficace nel procedere del capitalismo del XXI-esimo Secolo.
6. Book sharing con Ground
Il primo giorno dell’anno Mariapia ed io, in visita al Adorno-Denkmal, girando per le zone verdi che circondano la Theodor W. Adorno Platz, abbiamo incontrato presso uno degli edifici della Goethe-Universität una solida e ordinata vetrina all’aria aperta dedicata al book sharing. Mariapia ha trovato uno splendido libretto enciclopedico pieno di infografiche su temi filosofici, utili per il suo lavoro come insegnante di storia della filosofia, che abbiamo pensato di cambiare con la copia di Ground che viaggiava con me. La mia presunzione non poteva arrivare oltre, supportata dal desiderio di premiare il lavoro di Marco e mio con un lancio del cuore – come si suol dire – oltre l’ostacolo (per altro, con un gesto minimo). Anche questo può essere un modo propiziatorio di accogliere il nuovo anno. I primi invii intanto stanno partendo.
[cont.]
8. Ground alla luce di Cento lettere
Esattamente un anno prima di Ground (2024) è uscito Cento lettere (2023) di Marco Ercolani e Angelo Lumelli: due libri entrambi scritti ‘a quattro mani’ per via di un epistolario tra gli autori. Un libro, tra l’altro, incentrato su Hölderlin in modo originalissimo e radicale, perfetto per sondare l’oceano sotto la sola lettera 6 di Ground, intitolata per l’appunto Hölderlin e la musica. In realtà individuare e percorrere le intercapedini e i passaggi poco visibili – per evitare il cliché del ‘segreti’ – che collegano i libri dell’Arca (la collana curata da Marco Ercolani e Lucetta Frisa a cui appartiene Ground) è il modo migliore per entrare in una rete di risonanze che si possono cogliere sullo sfondo di ognuno di essi pressoché sempre. Ground andrebbe letto consultando il più possibile tutti i libri della collana. La questione dell’essenza della poesia in Cento lettere si pone per certi versi sul solco di Heidegger, proseguendone però il sentiero di gran lunga, confrontandosi con un ampio ventaglio di poeti vissuti con la massima radicali. Si tratta di un versante non ‘armonico’ e non borghese della Bildung tedesca? Da Hölderlin a Trakl si può individuare un qualcosa come una Bildung? Dal punto di vista musicale assolutamente sì. Anzi, vorrei dire che nel suo darsi come impossibile, come “anacronismo”, questo scorcio di Bildung è indispensabile a un’indagine musicale concentrata sulla sua specificità più intima. Musicisti che non leggono. Letterati che non ascoltano. Gli abissi si pongono concretamente sul crinale di questa Bildung, perseguibile sempre a metà, affacciata sul bordo del suo dimezzamento, finanche consapevoli del rischio di essere un Hotel Abisso, una clinica da Zauberberg, e non certo una Bildung adeguata alla alle chiamate di Max Weber (sebbene sempre connesse con la sua storia della razionalità come storia dell’Occidente).
[cont.]
9. Spettralismo: ultimo dei sistemi?
Appena accostato Testo e Suono di Alessandro Melchiorre (2023) – arrivatomi oggi (venerdì 17 gennaio 2025) – mi rendo conto che molte cose di questo libro risvegliano la sensibilità critica e poetica di Ground. In particolare la mia attenzione cade sul capitolo VIII Spettralismo: ultimo dei sistemi? che si mette subito in contatto, potrei dire, con il mio Marsia, la pelle del tempo, il quale – seppure riscattando in parte la figura di Socrate rispetto al giudizio nietzschiano che Hugues Dufourt in Mathesis et subjectivité mostra di sposare – nasce concretamente dal più che cordiale incontro avuto con Dufourt a Strasburgo l’estate del 2022 (due anni e mezzo fa), incontro che si è aperto pressoché subito su un tema ancestrale, tra i più cari a Dufourt, ossia quello antropologico (e psicologico) del ‘cannibalismo’. Proprio da quell’incontro ho tratto spunto per affrontare il mito di Marsia e Apollo, letto nella prospettiva pitagorica di Ovidio e più in generale sullo sfondo con cui Frazer ebbe modo di collocarlo presso il mito di Attis e altri miti di origine orientale. Il primo mito in questo ambito è certamente quello di Dioniso; ma subito d’appresso si impone il mito di Marsia, il quale, se non rimanda a un effettivo cannibalismo, ne porta con sé comunque l’insuperabile drammaticità sacrificale (a questo punto devo assolutamente conoscere il quartetto d’archi di Dufourt dedicato al Punizione di Marsia di Tiziano). Di fatto, è stato Hugues Dufourt che mi ha consigliato di contattare Melchiorre in vista di una qualche evoluzione relativa alla mia traduzione del suo Mathesis et subjectivité; e questo può bastare a individuare un piano comune. Ma al di là della vicenda, in pieno sviluppo, due domande dovrebbero essere poste sia a Ground sa a Testo e suono:
Domanda 1: in nome dell’autonomia della musica, del’ “esprimere mediante suoni qualcosa che solo coi suoni si può dire” (frase che Melchiorre trae da Schoenberg, pensando al modo in cui Schoenberg presentò a Richard Strauss i suoi brani per orchestra op. 16, del 1909), ci si è mossi – in direzioni opposte (la modernità creativa, Melchiorre, l’antichità ‘antropologica’, io) – partendo però, in qualche modo, effettivamente da uno stesso nucleo problematico legato esplicitamente al contatto con Dufourt? Se così fosse si attiverebbe in questo contatto un recupero di soggettività sul crinale inconscio/coscienza, crinale tra i più importanti della filosofia novecentesca.
Domanda 2: la musica arriva a conoscere il nucleo più profondo di se stessa quando aspira, in un modo o nell’altro, a risvegliare i nuclei portanti della filosofia a lei di volta in volta contemporanea?
Il rapporto tra coscienza e inconscio starebbe alla base della musica più realmente autonoma e forse, proprio in virtù della sua autonomia (che è una forma di libertà), più radicalmente a contatto con nuclei non facilmente raggiungibili – e forse raggiungibili solo attraverso la musica – della soggettività come fenomeno condiviso, dell’intersoggettività. Fatalmente mi sembra leggibile Musica e testo con questo orientamento; e il patrimonio di arricchimenti che – già mi è chiaro – mi arriveranno da questa lettura spero possa dare maggiore consistenza a queste domande. Tale rapporto tra coscienza e inconscio si pone alla base della razionalità occidentale come è venuta evolvendo da Leibniz a Max Weber. E tale razionalità è da intendersi non in antitesi ma a fondamento della Bildung tedesca di matrice idealista, anche nel suo disperdersi/evolversi attraverso almeno due dicotomie (evidenziate da Cacciari): quella rappresentata dal rapporto tra Marx e Max Weber e quella rappresentata dal rapporto tra Max Weber e Thomas Mann. Ma, se su questo sfondo può essere letta l’azione dello spettralismo, in che senso effettivamente si può parlare in esso di ‘sistematicità’? Il professor Oscar Meo mi obbiettava la sistematicità latente (ed evidentemente criticabile) della strada intrapresa da Dufourt. Ed ecco riapparire questa domanda in Melchiorre.
[cont.]
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FEBBRAIO 2025
10. Bildung e “prosciugamento” dell’inconscio
Posso ricordare un periodo particolare della mia psicoanalisi con l’analista junghiano Franco Colombo (siamo negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi anni del XXI secolo), in cui avevo preso a trascrivere i miei sogni con grande zelo e con la larvata intenzione, ingannevole, di diminuire la distanza tra la mia coscienza e il ‘mio’ inconscio, quasi cercando di far dire all’inconscio ciò che speravo dicesse. Fui naturalmente messo in guardia da Colombo circa le resistenze che animavano tale intenzione e potrei dire che quello è stato il mio primo incontro con il rischio che sempre si corre allorché la coscienza, con le sue ‘buone intenzioni’, tenta di ribaltare l’immagine freudiana secondo cui l’io è la piccola punta emersa di un iceberg inconscio.
Questa potrebbe essere infondo l’esperienza principale che pone la mia inesausta ricerca di una Bildung musicale accanto alla scrittura di Marco Ercolani: la letteratura di Ercolani, programmaticamente bilanciata tra vertigine e misura, è eminentemente predisposta ad evitare ogni “prosciugamento” dell’inconscio. In questo senso non è riducibile a una letteratura del dissolvimento della Bildung, qualunque cosa si intenda con tale dissolvimento (rispetto alle questioni sempre più mal poste di egemonia culturale o di industria culturale), ma distoglie la letteratura da ogni tentativo ideologico o filosofico di esercitare una qualunque padronanza sull’atto di scrittura e sul rapporto che tale atto di parola possa avere in riferimento alla musica.
Ogni discorso relativo ai rapporti tra letteratura e musica compresi nell’orbita dell’arte di Ercolani dovrebbero riferirsi a questo presupposto generalissimo, che può avere o no un suo sfondo ontologico.
FEBBRAIO 2025
5 febbraio 2025
La giornata di studi alla Biblioteca universitaria di Genova dedicata all’opera di Marco Ercolani ha avuto un buon esito. Spero proprio che se ne raccolgano le relazioni, le testimonianze e l’intervista a Marco Ercolani curata da Viviane Ciampi. Ida Merello e Rosa Elisa Gianola hanno saputo guardare all’intera opera di Marco partendo da opere giovanili di cui non conoscevo l’esistenza .Giuseppe Zuccarino e Luigi Sasso hanno prodotto due saggi estremamente lucidi, Daniela Bisagno ha letto una ricchissima prolusione e Stefano Verdino ha scritto un saggio spiritosissimo attorno alla finta realtà e alla vera finzione dell’apocrifo in Marco. Altrettanto interessanti le testimonianze di Francesco Macciò e di Massimo Morasso. Parlandone ad incontro finito ho trovato felice Luigi Sasso [buon articolo di presentazione di Stefano Verdino sul Secolo XIX del 4 febbraio]
Francesco Denini
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ERRATA CORRIGE
Qualche correzione l’oggetto-libro Ground la richiede. Indico qui con un punto esclamativo (!) quegli errori che potrebbero compromettere più marcatamente la comprensione del testo.
A pag. 5, terza riga (!1): il primo periodo non è stato raggiunto da una correzione che avrebbe fatto cadere la virgola e la ‘e’ dopo ‘talvolta: “Ogni lettera o quasi di questo epistolario è accompagnata da una guida all’ascolto che rimanda a registrazioni spesso presenti anche in rete, talvolta in video, talvolta esclusivamente reperibili.”
A pag. 7: è sfuggita la seconda ‘c’ al nome ‘Francesco Denini’.
A pag. 10, sest’ultima riga: il titolo del brano di Couperin “Les Barricades mysteriouses” ha perso la prima ‘e’ dell’aggettivo.
A pag. 14, terz’ultima riga (!2): “putting it another way” deve essere corretto con “putting in another way”.
A pag. 42, riga 20 (!3): ripartire il Wozzeck” [e non Woyzeck].
A pag. 49, terzultima riga (!4): “sul quale è reperibile” e non “sono reperibile”.
A pag, 60, nel rimando alle Nozze di Figaro di Mozart il nome di Claudio Abbado è inutilmente ripetuto 2 volte.
A pag., 64, sesta riga dal fondo: “ad assumere” invece di “a assumere”.
A pag. 65, penultima riga la parola ‘istituzionalizzarsi’ è erroneamente divisa in “istituzioni zionalizzarsi”.
A pag. 75, ottava riga dal fondo (!5): “evocati da un medium” (inserire il da mancante).
A pag. 76, undicesima riga dal fondo (!6): “con tre citazioni, che da Hölderlin e una da Sofocle”[cioè meriti “una”].
A pag. 80 alla nota relativa alla lettera 22, “Nella penombra della mente | la Dimora del tempo sospeso” è inutilmente ripetuto due volte.
A pag. 86, nella poesia di Bernard Noël (!7): “qualcosa da segno” va sostituito con “qualcosa fa segno”.
A pag. 91, in capitolo 2, terza riga (!8): “alla base ti tale specifico ‘sapere di non sapere’ [senza ‘o’].
A pag. 95, in nota 16 (!9): “adeguatamente commentate, Ilaria Ottria, in “Marsia e Glauco”, senza ‘da’.
A pag. 97, prima riga (!10): “città Pergamo” è da correggere con “città di Pergamo”.
Consegnato a [11] Mariapia Branca, Raffaele Cecconi, Carla Magnan, Claudio Lugo, Guido Caserza, Roberto Merani, Graziano Denini, Barbara Danovaro, Roberto Mingarini, Giovanna Savino, Caterina Scandale, …
Da parte di Marco Ercolani (che io sappia) [1]: Giuseppe Zuccarino, …