Presento qui un laboratorio di trascrizione per alcine lezioni che Sylvano Bussotti tenne presso la Suola di Musica di Fiesole negli Anni Ottanta del Novecento. Questo lavoro mi fu affidato da Bussotti senza che poi si riuscisse a trarne nulla di definito. Conservo ancora alcune cartoline e alcuni messaggi con sue generalissime esortazioni.

Mi sono rimasti dei fogli dattiloscritti con primi elaborati e fogli Bussotti aveva fatto molto grezzamente trascrivere con macchine dell’epoca, non saprei nemmeno dire quali. Le difficoltà erano troppe. Ho anche ricevuto un aiuto potrei dire letteralmente esorbitante da parte di mio fratello Graziano, senza comunque ottenere risultati soddisfacenti. Sottoposi qualche brandello di lavoro ad alcuni compagni di studi, che avevano assistito a quelle lezioni, ricevendo impressioni non incoraggianti.

I mezzi di lavoro sono completamente cambiati da allora. Man  mano che queste trascreizioni procederanno spero di trovare l’aiuto di Claudio Lugo, Leonardo Gensini, Mauro Castellano, Hidehiko Hinohara, Stefano Castelvecchi, Gustavo Malvezzi, Paolo Silvestri, Luigi Esposito e altri compagni di studio che hanno preso parte a quelle lezioni o hanno comunque strumenti per poter rendere massimamente fruibili e adeguate ai contenuti trattati queste lezioni fiesolane, sperando questa volta, in questo modo, di arrivare infondo al lavoro..

    

Lezione del 29 febbraio 1983

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Quando ieri parlavamo del suono, volendo provare a cercare una corrispondenza che interessasse l’aspetto del movimento – nel senso cioè di ‘quello che si guarda’ (ad esempio nell’ambito teatrale) -, accennavamo a fatti relativi alla scrittura e alla natura del suono.

Volendo poi trasporre questi principi o ricerche …forse sarebbe più giusto dire nel campo dell’immagine prima ancora che del movimento, si rimane in un certo senso perplessi, se non imbarazzati di fronte ad un problema, che è poi il problema eterno: ogni qualvolta che una corrente di pensiero – sia speculativo, sia scientifico o filosofico, o altro – imbrocca un cammino stabilito con delle regole più o meno rigide, o peggio con delle rigide finalità, ci si trova a fare i conti non solo con delle caratteristiche diverse (a causa dei diversi modi di esprimersi), ma addirittura con diverse caratteristiche nell’ambito stesso del suono e dei diversi parametri che lo costituiscono.

Verso la metà degli Anni Cinquanta, nel campo della musica europea, con la pubblicazione della rivista Die Reihe, dei Quaderni di Gravesano e dei mensili di Darmstadt (queste pubblicazioni erano caratterizzate dalla moda delle analisi delle ultime composizioni fatte frequentemente con metodo matematico o presunto tale), fu in gran voga, come ricorderete, una sorta di uguaglianza – ritenuta, oltreché possibile, necessaria e anzi indispensabile nel discorso musicale – che è poi la famosa uguaglianza di tutti i parametri. Nell’ambito dell’esperienza seriale, se si rimaneva concordi nel suddividere un’ottava in dodici semitoni, con la nota serializzazione di tutti i parametri si rendeva quasi obbligatorio avere altrettanti elementi per i cinque parametri ufficialmente riconosciuti (altezza, durata, dinamica e timbro), estendendola magari a quel sesto famoso parametro che John Cage pretendeva si dovesse applicare anche alla struttura della composizione, cioè il parametro della sequenza. Cominciava già allora, questo sistema, a dimostrarsi opinabile, a volte ingenuamente opinabile, appunto perché si era tentato, a monte di una serie di dodici altezze, di corredare questa serie con una serie di durate che dovevano essere anch’esse dodici, e di un’altra serie di dinamiche che erano anche loro dodici e via discorrendo, senza tener conto del fatto che la percezione nuda del suono, quella che avviene direttamente attraverso l’orecchio, non ha la stessa sensibilità nel percepirle: sezionando ognuno di questi elementi separatamente, si veniva a creare un modus scrivendi estremamente astratto. Momento fascinoso e affascinante, ma indubbiamente destinato a creare non pochi problemi al compositore, per non parlare di quelli che avrebbe dovuto creare all’ascoltatore.

I primi volumi di Die Reihe presentavano saggi con fittissime pagine di analisi e di diagrammi attraverso i quali si sezionavano le composizioni del momento. Niente di più tranquillo, nel senso che, obbedendo la musica ad un sistema del tutto razionalizzato, in senso matematico e quasi meccanico, l’errore praticamente non avrebbe dovuto esserci. Ma con quanta gioia un musicista e pensatore della teoria musicale come Ligeti, che aveva lasciato il paese dell’est da cui proveniva, ovvero l’Ungheria, e dove era già un’autorità proprio come insegnante, tanto è vero che il trattato di armonia e contrappunto ufficiale che tutti i conservatori di quel paese utilizzano è suo, scoprì che chi aveva fatto quelle analisi – gli autori stessi o alcuni dei loro commentatori – aveva fatto degli errori. E gli errori non sempre risultavano a posteriori, cioè nel campo dell’analisi, ma a volte nella composizione stessa: il compositore si era dunque manifestamente sbagliato nel fare i conti, componendo con quei sistemi.

Pietra dello scandalo, e diciamo pure capro espiatorio di questa situazione, risultò essere il primo brano delle Structures di Pierre Boulez per due pianoforti. Questo primo brano è l’unico nel quale consapevolmente Boulez si sia trovato ad astrarsi completamente, a non far intervenire nemmeno per un istante il compositore, in favore della serie, accorgendosi immediatamente che, probabilmente, non gli interessava più, dopo un certo numero di pagine, lavorare a servizio, o a doppio servizio, di un qualcosa di così impersonale come una serie di norme di natura matematica. E proprio in questo famoso brano Ligeti avrebbe pescato alcuni ‘clamorosi errori’. Le polemiche sono durate a lungo. Ma poi sono cessate. Resta il fatto che la musica di Boulez risulta, anche nei casi di estrema astrattezza di pensiero e di freddezza di materiale, una musica – secondo me – ricca di suggestioni.

Passando ora all’immagine, mi viene immediatamente alla mente un particolare periodo, di cui ogni tanto emerge qualche documentazione in codici, biblioteche e gallerie d’arte, e che per comodità chiamiamo ‘partiture barocche’ o ‘prebarocche’, nei quali si possono ammirare dei paginoni che contengono tutte le informazioni necessarie per rappresentare un determinato evento spettacolare. A Roma, in particolare, nella seconda metà del Cinquecento, si facevano in determinati momenti delle feste dove il principale motivo di divertimento era costituito da danze di cavallerizzi e di tornei a cavallo, che avevano il significato – al quale più tardi si dovrà ispirare anche Monteverdi componendo il Combattimento di Tancredi e Clorinda – di riferirsi alla classicità, ai miti greci e via discorrendo (cosa molto di moda nel Cinquecento), dove l’elemento equestre era particolarmente significante. Ma allo stesso tempo si riferiva a miti, allegorie della mitologia antica, dove il personaggio a cavallo era sempre uno dei personaggi principali. Lo spettacolo raramente si chiudeva nell’ambito della sala, del luogo dello spettacolo, ma molto spesso si articolava in differenti momenti, di cui alcuni si svolgevano in grandi spazi all’aperto, in percorsi che consentivano spostamento degli attori e del pubblico lungo uno spazio piuttosto cospicuo per poi incontrarsi di fronte ad una cattedrale e in un particolare salone del palazzo ed infine in un luogo di spettacolo vero e proprio che non veniva scelto per una sua precisa destinazione funzionale, ma piuttosto perché erano ambienti di particolare solennità, nei quali si svolgevano poi le nozze e le condanne a morte, o tanto altri elementi del vivere civile, studiati nel loro aspetto più solenne e cerimoniale.

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Il fatto è che ci siano pervenuti pochi schizzi di costumi du scena forse lo si può aggirare pensando che nella pittura c’è tento di quel costume, per noi già teatrale, perché rappresenta un modo di vestire di due , tre o quattro secoli fa, che tiene sempre presente, ad esempio, il vezzo, per alcuni artisti, di non pensare di dipingere un personaggio con abiti normali, ma di fare una rappresentazione per immagini, imponendo quindi di abbigliare in una maniera molto più sontuosa e ricercata. Anzi molti artisti godevano di una particolare forma di successo proprio in virtù della fantasia  che sapevano eccitare nel rappresentare tale o talaltro personaggio. Molto di più di un costumista del nostri giorni, che ahimè agisce obbedendo ai parametri a cui accennavo prima.      

Continuano ad elencare i vari elementi dello spettacolo … 

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[pag. 12] … ,Io, in quel paio d’ore al giorno in cui chiacchiero con voi, sono lo spettacolo. Ma non dimenticate che, nello stesso tempo, voi siete il mio spettacolo. Vorrei che ci abituassimo e prendessimo il vizio di esserne consapevoli costantemente. Ad esempio, mi piacerebbe moltissimo che, interpretandola come lettura estemporanea e collettiva di una delle tante partiture, così concepite, da Schnabel, tutti insieme vi metteste le dita nel naso; … cosa che invece nessuno fa, e tanto meno con il suo vicino di sedia. Dunque questo fatto della Scuola-Spettacolo mi stai prendendo moltissimo. Voi sapete che ne sto progettando una a qualche metro dalle mucche di casa mia, a Genazzano, che dovrebbe iniziare le sue attività tra un anno, se va bene, cioè nell’autunno del 1984, e, a partire dal 1985, dovrebbe istallarsi proprio una scuola. Ma con delle finalità abbastanza originali. E con un legame stretto con la Scuola di Musica di Fiesole, perché, per quanto la Scuola di Musica di Fiesole, sia abbastanza nota ormai, credo, in giro per il mondo, per la sua singolarità, è pur vero – e quelli che son qui da qualche anno lo hanno sperimentato anche a loro spese – che, oltre a una certa soglia, perfino qui (e anzi forse qui risulta a addirittura in modo paradossale) la Scuola non può andare.