Questo brano è tratto dal libro di Marco Ercolani Galassie parallele. Storie di artisti fuori norma, il Canneto editore, Genova 2019. Un libro nutriente quant’altri mai, che nella follia, conclamata o nascosta, nell’eresia e nella non adattabilità completa alla vita, nel percorrere vie non-maestre e devianti, trova la fonte originaria da cui pulsa l’energia sotterranea della vita e dell’arte. L’autore presentando una cinquantina e più di ritratti di artisti, poeti, scrittori e musicisti, corrisponde tra l’altro, dal punto di vista letterario, al tentativo di gettare ponti inediti tra musica, arti e letteratura che vengono naturali e pur sempre nuovi e spiazzanti ad uno spazio come SuonoSonda. Nella sua veste cartacea primigenia, SuonoSonda, col suo ottavo numero, si era già occupata di Federico Incardona con uno scritto di Marco Spagnolo a commento del brano Malor me bat: graffito da Ockeghem dedicato a Luigi Nono (1995), in una versione interpretata da Augusto Vismara al violino, Fabio De Melis alla viola, Francesco Sorrentino al violoncello, Gabriele Savoja, Marco Crescimano e Giovanni Damiani a crotali e bottiglie.

 

In Malor me bat: da Ockeghem dedicato a Luigi Nono (1993) per trio d’archi, tre bottiglie soffiate e crotali, il palermitano Federico Incardona ci immette, come sempre, in un’esperienza percettiva radicale, dentro una tensione che non ammette distrazioni.

“La musica è dunque legge del dolore portato alla sua più radicale esaustività: come aquilone da mani tranquille lanciato nei cieli indica Altro, quella circoscrive lo spazio in cui dovrebbe essere: indicandolo salva il mondo che è indifferente e si dondola nello spazio e restituisce agli esseri e alle cose il loro splendore offuscato dalla stanchezza… il cosciente costruttore di suoni deve sprofondare nella più lacerata soggettività, divenire per questo disperso, morto a sé: albero che affonda sempre più radici e ne espande e fruttifica in cori doni, sapori, suoni”.

Questo “sprofondare” è un incantamento doloroso. Pur debitore di Nono, Incardona si allontana dalle folate tragiche del maestro veneziano e preferisce un tempo sospeso, più intimo. Potremmo immaginare un uomo che cammina vicino a una cascata, traversato dai suoni acuti, gravi, bassi, alti, lunghi, brevi, deboli, forti dell’acqua che scroscia. Sopraffatto, ascolta.  Ma quando li trascrive deve operare una scelta. Mentre agiscono da sismografi le armonie e le melodie taciturne, deve però affiorare una sola voce, portatrice di tutte le altre: udibile, ma con dentro una cascata scrosciante. Dentro la voce che parla ci sono sempre mille voci che tacciono, ma un tacere non passivo, composto di suoni che bisbigliano, si affollano, si espandono o si contraggono – polifonia segreta della monodia che emerge straziata -, uno strazio che ci arriva dai tempi lenti di Bartòk (come in Sonata per archi, celesta e percussione), in cui domina il tema della notte.

Così si esprime Incardona, ragionando a partire dalla polifonia franco-fiamminga di Guillaume Machaut: 

“Più che mai oggi necessita il vaticinio dell’errante, dell’apolide sradicato da qualsiasi tranquillizzante contesto e così in grado di scoprire altrove, nuove sintassi, morfologie, grammatiche. Randagio senza fissa dimora, né luogo, in perenne conflitto con se stesso, con il mondo, indica alla nostra triste epoca di nazionalismi regionali la loro becera volontà del ‘niente’, elevando la sua condizione erratica (così Mahler e Janàcek) a presa di coscienza della liberazione definitiva del temuto rapporto tra spazio e tempo.”

Nella musica di Incardona si fa strada la possibilità, come scrive lo stesso musicista, di un “linguaggio nuovissimo che procedendo da Mahler e Webern affonda la propria radice nella profondità dell’Etnìa” e “di un procedere compositivo e umano che sia […] rivoluzione permanente in quanto tradizione perpetua.” Il musicista aveva maturato sempre di più l’idea che il ricorso alle fonti popolari, più che costruire identità forti e locali, servisse ad elaborare il lutto per ogni vita offesa rielaborando strategicamente una nuova memoria-futuro. Questa sua attitudine rafforza il legame con Mahler, che nella musica popolare coglieva la traccia del dolore mai risarcito. Incardona si rivolge a una tradizione radicale e dimenticata, all’inizio del millennio, e ci restituisce un modo, tutto suo, frammentario e moderno, di attingere all’antico: i canti popolari siculi – le vicariote (invocazioni dei carcerati alle madri), i repiti (lamenti funebri), i canti dei carrettieri (canti lirici) -, non sono più soltanto segni folcloristici ma zone archaiche, ricche di musica a venire.

La posta in gioco consiste nel far nascere un ‘essere musicale’ a partire da una sospensione nel tempo: l”essere musicale’ è sfida di una musica che usa tutto il materiale sonoro – agogica, dinamica timbrica – per essere melodia. Lo spazio di base dove agisce il compositore è tracciato all’incrocio tra linea verticale dell’armonia e quella orizzontale della melodia: il vero e proprio atto creativo, in musica, consisterà nell’inedito attraversamento in ‘diagonale’ di questo spazio, dove canto popolare, siculo e mediterraneo, polifonia medioevale e rinascimentale, Webern, Nono, Bussotti, si trovano contigui: nel trovare un tempo per ciò che non può misurarsi col tempo, per l’incommensurabilità, lo scarto irriducibile che la diagonale segna, innanzitutto sul piano esistenziale, rispetto al rapporto proporzionale tra linee armoniche e linee melodiche. Federico Incardona si fa pervadere dalla difficoltà estrema di tracciare una nuova diagonale sonora dopo l’impresa storica della seconda scuola di Vienna – e di Anton Webern in particolare – consistente nell’avere abolito ogni confine tra orizzontalità melodica e verticalità armonica.

Le sue composizioni guadagnano metodicamente incompiutezza e inorganicità: i suoi ‘esseri musicali’ consistono di larghe fasce sonore con sequenze di arresti e improvvisi re-inizi che segnano uno smembramento del tessuto sonoro ma anche una caparbia ri-costruzione. Da qui il recupero dell’etica di Mahler come chiave del processo compositivo: la memoria, soprattutto quella più dolorosa, si impone come rovescio necessario e indomabile del suono a cui ogni musicista lavora. Le tecniche del comporre non potranno più prescindere dalla strategica fusione di rigore e di emozione, come accade in certi musicisti mai definiti da ideologie musicali come Orlando di Lasso e Thomas Tallis. Incardona è convinto dell’ “atemporalità delle tecniche e della necessità di pensare la musica come quella illuminazione della ragione sulla vita dei sensi e degli affetti”. Le partiture, sovraccariche di agogiche, fondono il madrigalismo gesualdiano e la tradizione monteverdiana con gli echi dell’espressionismo viennnese, e ci restituiscono il senso di un’erranza inquieta, da Wanderer postromantico.

Federico Incardona, che ha musicato testi di Hopkins, Lorca, Kavafis, Celan, profeta tragico e maudit di un’intera generazione, musicista ‘novissimo’ vicino all’estasi notturna della poesia, muore il 29 marzo 2006, a soli 48 anni. Concludo citando le sue parole, ereticamente antididattiche, in una lettera a Carlo Emilio Carapezza:

“Come si fa a perfezionare ciò che per definizione sfugge qualsiasi atteggiamento programmatico; l’atto compositivo, la pura vertigine dello sconosciuto, dell’inaudito, che abbisogna spietatamente, oggi più che mai fieramente! di inventarsi la sua propria tecnica ad ogni passo, e rinnegarla dopo, nonostante i progetti seriali, le grigliature, e tutti i sistemi e tralicci di cui comunque, scaramanticamente, ci dotiamo!”