[in cantiere]
CINQUE TUNNEL
Lo sai: debbo perderti e non posso
“Se mi esamino attentamente, devo ammettere che questo e nessun altro è sempre stato lo scopo del mio creare: acquisire la coscienza dei maestri.” Con queste parole il maestro Thomas Mann si rivolgeva all’amico Paul Amman in una lettera del 1915. A più di un secolo di distanza, queste semplici parole hanno il potere di riproporre la questione dell’essenza dell’influenza letteraria, e del suo costituirsi entro un canone, in modalità che potrebbero essere estese anche ad altre forme di espressione, come ad esempio la musica. Anche oggi la coscienza del passato potrebbe risultare più esatta allorché fosse sospinta dall’apporto di una dinamica attività creativa? O piuttosto la sua forza sta proprio nel non oltrepassare un’attenta ricerca storica e filologica? Comunque sia ponga la questione, il motto nietzschiano “per capire qualcosa dell’arte si creino opere d’arte” ha incontrato nel frattempo numerose e consistenti obiezioni, alcune delle quali ancora attuali. Nonostante gli hegeliani trascendimenti dello spirito assoluto oltre arte e religione o gli smarcamenti di molte e diverse vicende artistiche rispetto alla realtà politico-economica, nemmeno i dadaisti o poi il movimento Fluxus, che pure ci arrivarono molto vicino, avrebbero pensato a una concreta inopportunità dell’arte. Ripensate oggi, possono addirittura, quelle parole, rivelare fino a che punto avremmo bisogno dell’arte e quale frattura si verrebbe a creare col passato rinunciando a qualcosa che almeno si avvii lungo un’attività artistica in tensione verso una qualche forma di verità. Ma l’azione umana, contesa tra oggettivazione (Entāusserung) e alienazione (Entfremdung), come può aver ragione del dubbio che il suo impegno possa risultare neutralizzato se posto unicamente sul sentiero di un disvelamento ontologico della verità? Occuparsi d’arte quindi, e spendere le proprie energie in un’attività creativa è qualcosa che possa veramente espandere la nostra coscienza sino a renderla capace di formare come impegno sulla realtà? Nel 1966 Theodor Adorno, dopo cinquant’anni dalle riflessioni del suo stesso maestro Thomas Mann, poneva, con il suo stile risoluto, i presupposti alla base della possibilità creativa della coscienza in modi del tutto differenti: “L’inevitabile carattere di apparenza dell’arte diventa scandalo di fronte ad uno strapotere della realtà economica e politica che non aprendo alcuna prospettiva alla realizzazione del contenuto estetico, tramuta in derisione anche la sola idea di apparenza estetica.” Da allora infondo cos’è cambiato? Cosa ‘non funziona’ in questa conclusione adornana o cosa invece si insinua e permane di valido – piaccia o no – in essa?
Thomas Mann Lettere a Amman … …
Harold Bloom Anatomia dell’influenza Bompiani 2…
Harold Bloom Il canone occidentale Bompiani 2…
Friedrich Nietzsche …
Martin Heidegger Sentieri interrotti [?]
István Mészáros La teoria dell’alienazione in Marx Editori riuniti (ed orig.1970) 1976
Umberto Eco Del modo di formare come impegno sulla realtà in Opera Aperta Bompiani 1962
Theodor Adorno Teoria Estetica Einaudi (ed orig. 1969) 1970.
Crisi del giudizio
Rinunciando all’arte è sicuro che ci si possa tranquillamente dedicare alla costruzione di quella che, in particolare in quegli anni, si sarebbe detta una teoria critica in grado di affermarsi positivamente sulla realtà economica e politica? Se può sembrare che ci sia qualcosa di ingenuo in questa domanda, così perentoria, potrebbe essere forse anche solo perché ciò che ce la fa apparire come tale si avvale di una saggezza volta a nascondere rinuncia, fiacchezza e appiattimento entro l’alveo d’una coscienza sostanzialmente spenta? In altre parole, non si perderebbe solamente la capacità di intuire più adeguatamente la coscienza dei grandi del passato, tramite la quale solamente potremmo sperare di trovare sempre e ancora nuovi stimoli per provare a comprendere e migliorare il reale. La rinuncia all’arte però, supponendo per ipotesi che si possa porre questo problema in questi termini, non implicherebbe il rischio di perdere la nostra stessa facoltà di giudizio, la condizione di possibilità stessa della nostra facoltà critica? Adorno, per rendere scottante il problema, poneva la questione in termini massimamente provocatori (e per qualcuno irritanti), chiedendosi, se fosse davvero più la poesia ‘dopo Auschwitz’. E non credo si possa escludere che si ponesse implicitamente il problema di quanto le condizioni storiche possano determinare, o almeno condizionare strutturalmente, le condizioni di possibilità stesse e quindi le strutture intime della nostra stessa facoltà di giudizio. Spostarsi verso una riflessione sul mondo che non tenga conto dell’esperienza estetica, anche qualora essa pure ci parli del nostro smettere di presumere che ci sia un mondo, vuol forse dire allontanare in una sorta di oblio quel senso di precarietà dell’arte, rispetto alle sue condizioni economico-strutturali, che solamente ci salverebbe un poco dal renderci ciechi per meglio vedere. Se in un remoto passato borghese si poteva parlare con proprietà di una fuga dalla realtà nell’arte, oggi la situazione, ribaltatasi, potrebbe offrire una quieta ideologia della realtà quale vero e proprio rifugio dall’inquietante coscienza dell’arte, quella l’unica coscienza, inquietante, che possa sperare di risvegliare provocatoriamente lo sguardo sulla realtà. Deciderebbe, di questa rimozione anti-artistica, una tendenza illiberale, volta a negare ogni possibilità di porre seriamente la questione di una relazione strutturale che leghi storia e verità nell’arte.
Atteggiamento estetico, giudizio, pensiero uniformato
Che l’arte e la riflessione sul bello si trovino in costante contraddizione con la tradizione della ragione borghese e i suoi retaggi è già riscontrabile a partire dal momento in cui questa si impose. […]
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Tra vertigine e misura
Il pensiero che si vuole ‘critico’ senza quella tensione che postula una qualche unità irraggiungibile rischia di impantanarsi in una palude di aspetti eterogenei. In tale rassegnata eterogeneità è fatale oggi che l’assedio di agenti di condizionamento sociale operanti …
Oggetto Amato
Ciò che necessita queste premesse […]
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Quel soggetto orientatosi all’analisi musicale che fugge dall’elemento aggiuntivo […]
…
Questa incapacità verso l’altro della soggettività isolata impedisce ai suoi rapporti con l’oggetto estetico, e in particolare con l’oggetto musicale, quella tensione che garantirebbe di costellarsi in teoria con un complesso di altri e diversi momenti culturali attorno a un non raffigurabile ma postulato oggetto amato.
OGGETTO AMATO
Il titolo, il suo contesto, il senso
APPARENZA
Conciliazione apparente
Il non destinatario
Poece de chair 1975
Apparenza ed esperienza
GRAFICA E MUSICA
Interno ed esterno
Alla ricerca del tempo
Illibertà che cambia
Autoritratto
MITOLOGIA DANZATE
Materialità
Echi
Spirito dialettico
Mitologie danzate
Eros e conoscenza
“È da un rifiuto che il reale prende esistenza; ciò di cui l’amore fa il suo soggetto è ciò che manca nel reale; ciò a cui il desiderio si arresta, è il sipario dietro il quale questa mancanza è figurata dal reale” (Lacan)
[…]
CONCLUSIONI PROVVISORIE
Eredità
Ritengo necessarie alcune precisazioni attorno al mio interesse per il pensiero di Theodor W. Adorno. Lungi dal potermi attualmente considerare uno studioso senza lacune in questo campo (questo scritto non vuol essere un ap-prodo di ricerche quanto piuttosto una riflessione attorno determinate esperienze), temo comunque che gli intellet-tuali che si rapportano all’opera del pensatore francofortese non riescano ad evitare facilmente quella reductio ad hominem che la filosofia adornano non smise mai di criticare.
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Il sogno del prigioniero
La vicenda del mio pensiero accanto ad un’opera d’arte non può forse in nessun modo rinunciare a quel residuo di estraneità che ogni volta assale l’arte e la mette in pericolo. Sia chi a partire dall’oggetto dell’analisi sviluppa rizomatici intrecci semiotici, sia chi proietta in essi i mostri della mente o le diapositive della storia, sia chi non rinuncia ai fantasmi chi non rinuncia ai fantasmi della propria esperienza introduce qualcosa di suo, che a chi giunge non potrà più del tutto risultare disgiunto dall’oggetto.
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